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Omaggio al “Petisso” artefice del secondo scudetto viola

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Di Tommaso Borghini

Bruno Pesaola avrebbe compiuto novant’anni il prossimo 28 luglio, ma se n’è andato prima, intorno alle 14 di oggi quando ha chiuso gli occhi all’ospedale Fatebenefratelli di Napoli, dove era ricoverato da tempo. Una notizia che ha risvegliato meravigliosi ricordi calcistici e profonda commozione soprattutto a Napoli e a Firenze, le città a cui era maggiormente legato e a cui aveva regalato il meglio della sua carriera sportiva.

Frizzante, caustico, serbatoio inesauribile di aneddoti e battute, amante delle carte e delle sigarette, un vizio che non è mai riuscito a sopprimere, Pesaola era uno dei personaggi più genuini e pittoreschi del mondo del pallone di casa nostra.

Tutti lo chiamavano “Petisso” cioè “Piccoletto”, perché era alto soltanto 1 metro e 65 centimetri, un soprannome che gli fu affibbiato in Argentina e che si è portato dietro attraverso tutti i suoi trionfi, prima da giocatore, poi da allenatore, fino all’ultimo dei suoi giorni.

Nato a Buonos Aires nel 1925, da padre marchigiano e da madre galiziana, emigrati in Argentina a cercar fortuna. Il suo babbo faceva il calzolaio, ma lui aveva in testa soltanto il pallone e, nonostante la sua taglia esile, riuscì a sfondare come ala-attaccante, dotato di grande velocità che gli permetteva finte funamboliche.

Dopo il debutto nelle giovanili del Dock Sud, viene notato dagli osservatori del River Plate che lo prelevano a 14 anni per proiettarlo verso una grande carriera calcistica. Lo sbarco in Italia avviene nel 1947, a Ciampino. La prima maglia indossata è quella della Roma, per 3 stagioni, dove s’innamorò della “Dolce Vita”. Finché un gravissimo infortunio, la frattura di tibia e perone dovuta a un’entrata assassina di Aredio Gimona, nel corso di una sfida col Palermo, sembra costargli la carriera. L’avversario fu squalificato a vita, ma Pesaola lo volle perdonare pubblicamente e così la squalifica fu ridotta a un anno.

Il “Petisso” non si arrende e non smette certo di giocare, anzi si trasferisce al Novara, dove duetta in campo con Silvio Piola e sposa Ornella, l’allora Miss Sanremo. Poi il passaggio al Napoli, per la cifra record di 33 milioni di lire. Siamo nel 1952 e alla città partenopea, da quel momento, si legherà per sempre, ben oltre la sua carriera di calciatore: 240 partite e 27 reti, fino al 1960.

Appese le scarpette al chiodo nel 1962 inizia la carriera di allenatore, partendo dalla Scafatese, ma è solo una breve gavetta perché dopo pochi mesi lo chiama Achille Lauro per salvare il suo Napoli dal baratro della serie C. E lui, non solo salva la squadra, ma conquista addirittura la promozione in serie A e vince pure la Coppa Italia, la prima alzata al cielo da una squadra che milita nel torneo cadetto.

Inguaribile scaramantico, fino a indossare il suo immancabile cappotto portafortuna di cammello anche d’estate, Pesaola riusciva spesso a mandare in confusione i suoi colleghi-avversari grazie alla proverbiali furbizie tattiche, come quando gridava alla sua squadra di arretrare, ma con la mano faceva gesto di attaccare.

Associazione_Calcio_Fiorentina_1969-1970L’altra tappa fondamentale della sua vita, dicevamo, è Firenze: in riva all’Arno passa alla storia come il condottiero del secondo e, fino a oggi ultimo, Scudetto della Fiorentina. Una cavalcata bellissima, conclusa con la vittoria di Torino contro la Juventus dell’11 maggio 1969 che fece ubriacare di gioia i tifosi viola per il tricolore della cosiddetta Fiorentina yé yé, una delle espressioni più riuscite di sempre di un calcio fresco, moderno e vincente.

La squadra viola segna poco, solo 38 reti, ma subisce pochissimo e non perde praticamente mai (una sola sconfitta in stagione). Pesaola la fonda su alcuni pilastri: Brizi e Ferrante in difesa,“Picchio” De Sisti, “Ciccillo” Esposito e Merlo a metà campo, Amarildo e Maraschi in attacco. Con la variante “Cavallo Pazzo” Chiarugi sulla fascia. Il risultato è uno strepitoso mix che stupisce l’Italia intera.

Tra i successi c’è anche una Coppa Italia vinta con il Bologna nel 1974 e la sua carriera di tecnico conosce anche una tappa esotica: allena il Panathinaikos nel 1979-80. Chiude di nuovo a Napoli con la miracolosa salvezza del 1983 in coppia con Gennaro Rambone.

Poi la sua “seconda” vita fatta di alcuni investimenti sbagliati (un bar, un’azienda di scarpe e una vetreria) e una denuncia per evasione fiscale che gli costa anche 10 giorni di prigione.

“Pochi sanno di calcio quanto me –amava dire – avessi avuto lo stesso fiuto per gli affari oggi sarei miliardario”. Aveva ragione Pesaola: in pochi sapevano di calcio quanto lui e davvero in pochi sono riusciti a lasciare ricordi indelebili, come ha fatto lui, tra Napoli e Firenze.

Ciao “Petisso”.

 

Nella foto in piedi (da sinistra): Ferrante, Brizi, Cencetti, Rizzo, Rogora, Superchi. Accosciati(da sinistra): Mariani, Maraschi, Chiarugi, Longoni, Amarildo. L’undici viola nell’immagine è quello sceso in campo il 15 marzo 1970 allo stadio della Vittoria per la partita contro il Bari,

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