Ho ascoltato con sofferenza fisica l’ultimo monologo di Renzi che mi è sembrato un capolavoro assoluto. Ben congegnato, ben recitato ma adatto a una favola per bambini, non per un elettorato di grande storia politica e civile com’è quello della sinistra storica italiana che Renzi in qualche anno ha messo in ginocchio.
In politica si può sbagliare, quale politico non l’ha fatto? Sbagliare non è un peccato. E’ peccato reiterare l’errore. Con una disinvoltura da Commedia dell’Arte. Con un eloquio istrionico adatto alle vecchie recite..
Umberto Cecchi
Ma la colpa, va detto onestamente, non è tutta e solo di Renzi, del suo egotismo, del suo io prorompente che non si cura degli altri, quelli ammansiti con poltrone né quelli crudelmente ignorati: la colpa è fin dal primo momento, della corte che lo ha circondato, osannandolo furbescamente come nessuno ormai fa più, neppure coi peggiori tiranni. Arriva sempre il momento in cui si deve avere il coraggio di dire al re che è nudo. Di avvertirlo. Metterlo in guardia. Perché il re nella sua infinita superiorità non sa d’essere nudo.
Se Renzi contro il quale non ho niente, tutt’altro, ho semmai simpatia per quella sua capacità di fare e di volere, me lo avesse chiesto, gli avrei spiegato di aver visto alcuni di tiranni, Amin Dadà, Haile Selassie – di tutt’altra stoffa, certo, ma convinto d’essere dio con il suo leone al guinzaglio, o l’avido crudele Bokassa: quelli erano tiranni e i cortigiani avevano paura a contraddirli. Ma Renzi no. Renzi non è un tiranno, è solo un bravo apprendista politico moderno che non tollera avversari, li isola, che fida più sulle parole che sui fatti. Qualcuno avrebbe dovuto dirgli che le parole volant, ma anche sono pietre. E vanno misurate.
Avevo detto ad amici, un’ora prima del discorso di dimissioni, che avrebbe fatto un capolavoro: si sarebbe dimesso senza dimettersi. Avrebbe ammesso che il partito aveva sbagliato, non aveva compreso certi segnali, ma che in compenso aveva salvato il Paese, aveva fatto una grande politica e un infinità di riforme. E così ha fatto, poi se n’è andato, veloce, solo, come a volersi staccare anche da se sesso, eppure senza voler affatto uscire di scena, facendo sapere che restava fino a governo fatto, per un impegno preciso: seguitare a salvare il paese. Senza accorgersi che era nudo. E drammaticamente, crudelmente, nessuno glielo aveva detto, prima di lasciarlo lì solo, orgogliosamente logorroico, quasi straniato, icona di se stesso, davanti alla crudeltà degli obiettivi.
Era nudo e nessuno glielo aveva detto perché in quel momento non aveva amici, solo interpreti sbagliati e profittatori di un ruolo, politici di prebende, spaventati per la sedia che vacillava.
Io ho sentito la sua solitudine, e per un attimo avrei voluto essergli accanto. Dirgli guarda tutti in faccia e dì solo, scusate, me ne vado. La prossima volta andrà meglio. La politica è fatta di alti e bassi. Tornerò se vorrete.
Ho pensato a Nelson Mandela, quando nella sua casa di Johannesburg, con coraggiosa ma umile ironia mi disse: a volte mi sono sentito più solo al governo di questo paese che non nelle sue galere. In galera qualcuno mi batteva una mano sulla spalla, da amico vero, nel palazzo volevano, volevano soltanto.
Se me lo avesse chiesto gli avrei raccontato queste cose. Lo avrei invitato a guardare con coraggio alla sua nudità, e farsi meno cortigiani e più amici. Ad avere la prammaticità di De Gasperi, capire la solitudine di Moro. Gli avrei spiegato che la politica è solitudine, parole misurate, responsabilità portata all’estremo sacrificio. Non iattanza.
Ma in fondo è giovane, forse sarà in grado di impararlo.