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Tra guerra e crisi. Il mondo senza certezze

Lorenzo Ottanelli
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crisi guerra

La tempesta è appena iniziata, tra una guerra in corso e lo spettro di una crisi. Ci dobbiamo rassegnare a una economia di guerra, che non ha niente a che vedere con l’economia del benessere. Dobbiamo essere consapevoli che niente finirà domani e che gli strascichi di questa situazione saranno lunghi nel tempo. Ad una inflazione legata a un rimbalzo economico, è conseguita una crisi legata al divario prezzi/salari, troppo ampia per un Paese che non ha investito nella produttività e verso la via alta dell’economia. Gli altri Paesi europei hanno fatto meglio, tra questi anche Spagna e Grecia, che pur partendo da situazioni difficoltose hanno saputo reagire con polso e creare una struttura pubblica più forte. La crisi finanziaria del 2008 in America e degli anni 2011/2012 in Europa ha mostrato le fragilità da cui sarebbe stato necessario emanciparsi.

Le istituzioni, private e pubbliche, però, non riescono a creare strutture di check and balances, come  le chiamano gli americani. Oppure, non si tiene di conto il fatto che è sempre meglio prevenire che curare, che si ha necessità di saper prevedere il futuro, per poter fare in modo che in economia non accadano di nuovo crisi come quelle passate.

La storia non è maestra di vita. Ce ne rendiamo conto adesso, quando di nuovo, a 15 anni di distanza, ci troviamo ancora una volta di fronte a banche che falliscono, che non hanno saputo comprendere andamenti di mercato, che non avevano gli strumenti per affrontare squilibri economici rilevanti. Eppure, eccoci, come sempre a ripeterci. Alla crisi economica, si aggiunge però la guerra in Ucraina. Tutto nuovamente parte dagli Stati Uniti, che fanno il bello e il cattivo tempo del mondo.

Siamo un mondo tecnologico, in cui tutta la vita è affidata all’elettronica. I nostri dati vengono smaterializzati, condivisi da campi elettromagnetici. Sembra impossibile che possano fermarsi. L’autocelebrazione delle grandi compagnie dell’hi-tech mostra un andamento florido, dove ogni volta è un passo in avanti: nuove funzionalità, nuove esperienze, nuovi aggiornamenti. Le “developer preview” sembrano portare le nostre esperienze a livelli mai visti. Eppure, l’andamento del mercato non premia, non come un tempo. I grandi colossi hanno iniziato a ridurre il proprio “capitale umano”, licenziando a frotte di migliaia.

Nella Silicon Valley è tutto ancora un fermento, nascono start-up come funghi. Niente è sicuro: le giovani aziende hanno bisogno di capitali per iniziare, le banche investono tramite strumenti finanziari particolari: il “venture capital”, ad alto rischio che frutta molto se il prodotto funziona, che perdi tutto se il prodotto non sfonda. La Silicon Valley Bank è una di quelle realtà nate dopo la crisi del 2008, nate con il grande boom della tecnologia. Punta tanto, troppo sul venture capital. Non può, però, sapere che dieci anni dopo la sua nascita i tassi inizieranno a salire tanto, troppo, che l’inflazione porterà la Banca Centrale a dover trovare delle modalità per affrontarla.

Il rischio diventa alto e la SVB fallisce. Nonostante la giovane età, è un punto di riferimento rilevante. La Silicon Valley Bank non è solo giovane di età, ma anche giovanile. Punta sulle criptovalute, tenta di sfondare nei mercati nascenti. E gli investitori la seguono. Quando fallisce il mondo intero ha un contraccolpo, è sempre la questione della bolla speculativa, anche se in termini diversi rispetto a quella del mondo finanziario del 2008. Al tempo era il mercato immobiliare, oggi quello tecnologico.

Quando gli squilibri sono così forti, tutto il mondo finanziario ne risente. I crediti più problematici, per diverse ragioni, sentono il colpo più forte di chi ha saputo creare mura solide. E così anche le cose più incredibili possono accadere: il tonfo di Credit Suisse fa pensare a un nuovo caso Lehmann. La Svizzera, però, sa di dover mettere ai ripari i crediti altrimenti tutto il sistema fallisce e forse riuscirà, grazie all’intervento di altre banche, tra cui quella centrale.

I punti adesso sono due: a) la credibilità di alcune delle banche più grandi del mondo è in dubbio perché Credit Suisse era un’istituzione, nonostante i numerosi problemi incorsi negli ultimi anni; b) oltre alla crisi economica e all’economia di guerra dobbiamo affrontare anche la crisi finanziaria.

Lo abbiamo detto all’inizio, lo ripetiamo adesso. Siamo in una economia di guerra e niente vale come nell’economia di benessere. Il punto è che gli squilibri mondiali, di qualsiasi tipo, divoreranno le economie nazionali, gli istituti di credito, che dovranno necessariamente correre ai ripari, ma dovranno essere più solide di quanto si aspettavano. Siamo in una situazione di crescita economica, seppure lenta, con una grande crisi economica legata al divario prezzi/salari. Teniamo di conto che questo significa che la politica deve ricorrere a strumenti fondamentali per mettere al sicuro i risparmi dei cittadini, altrimenti tutto sarà mangiato e la situazione, per come si struttura, è forse più difficile della mera crisi economica che prevede una regressione economica. Per mettere al riparo famiglie e imprese, i governi dovranno obbligatoriamente ricorrere al debito e alcuni Paesi, tra cui l’Italia, non potranno fare altro deficit. Il rischio? Il default.

Se accanto a questo si adduce una crisi finanziaria? Non ci vuole un esperto in materia per comprendere che le situazioni si complicano. Ricette risolutive? Difficile dire, molto complesso da mettere in campo. Le Banche centrali saranno disposte a un altro Quantitative Easing, come quello sviluppato da Draghi nel 2013? Oppure sarà necessario fare ricorso al MES? Non esistono molte alternative, sempre che non si riesca, in pochissimo tempo a mettere in moto una riforma del lavoro, produttiva, capace di sviluppare una modalità economica che spinge l’Italia verso la via alta, capace di premiare i giovani, di farli entrare nel mondo del lavoro, di sperimentare una modalità più incentrata sulla ricerca e sullo sviluppo.

Tutto ciò sarà possibile se le nostre banche potranno appoggiarsi su basi solide. Solo in quel modo potranno proporre investimenti a più alto rischio. Dovremmo anche chiedere ad alcuni alti investitori di potersi affidare al mercato nascente. La situazione, però, non premia questo tipo di scelta. Ci sono, ci saranno modalità per uscire dal marasma che si è venuto a creare? Non abbiamo risposta.

Se ci aspettavamo un mondo più giusto, più aperto al lavoro e produttivo, abbiamo sbagliato. Non andiamo verso una florida crescita, non ci spingiamo in situazioni di miglioramento delle condizioni sociali. E questo può creare un cataclisma. Perché all’abbassamento delle condizioni sociali e dei diritti a loro legati, non si prospetta un incremento dei diritti civili. Né la crisi né la guerra, per loro fondamento, lo prospettano.

In politologia si studiano le ondate di democratizzazione. Ad esse si alternano ondate di regressione. Oggi, la geopolitica sembra spingerci verso una sempre più visibile ondata di regressione, nata con la strutturazione di quelle che potremmo chiamare “democrazie illiberali” e che altro non sono che dittature mascherate da democrazie (come Russia e Ungheria). L’ondata di democratizzazione delle “primavere arabe” di oltre dieci anni fa è stata facilmente sopita dalle grandi autocrazie. Oggi, infatti, l’ordine mondiale sembra essere sempre più strutturato al modello fotocopia di decenni fa, quello della guerra fredda. Da una parte gli Stati Uniti e l’Europa (che gli fa da galoppino), dall’altra la Russia, la Cina e in misura minore i grandi paesi del gruppo Brics.

Diciamo solo che le prospettive pessimiste sembrano le più probabili. Se la crisi economica e finanziaria dovesse acuirsi, la goccia potrebbe uscire dal vaso e la guerra potrebbe essere la soluzione che i grandi della Terra potrebbero sostenere per cercare di venirne fuori, come hanno sempre fatto negli ultimi centoventi anni.

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