Perdere a pezzi la storia è un vezzo che non ci possiamo permettere. Nemmeno se si tratta di storia recente e per di più legata a fatti di cultura. Ma anche Firenze è cambiata, accettando un relativismo superficiale che giustifica tutto. Anche la sparizione delle ‘Giubbe Rosse’, lo storico caffè dove fu fatta una delle poche rivoluzioni italiane: quella della cultura, che con un colpo di timone cambiò l’Ottocento letterario italiano e inventò Dino Campana, il poeta pazzo, che seguì Rimbaud d’una spanna e anticipò Alda Merini di un secolo. La Merini è pluripubblicata, Campana è pluridimenticato. Ma Campana e le Giubbe Rosse ebbero una scontro doloroso già a suo tempo, quando il poeta di Marradi dette a Soffici e Papini il suo manoscritto di poesie – I ‘Canti Orfici’ – Soffici lo perse. Ma questa è una minima parte della leggenda ‘Giubbe rosse’, punto di incontro di poeti e letterati di saggisti e novellieri, ‘ring’ per gli scontri fra i Futuristi marinettiani e i ‘conservatori’ riluttanti alla Soffici, che pur aveva già sperimentato a Parigi le nuove tecniche pittoriche che scandalizzavano i benpensanti . In piazza Vittorio Emanuele, davanti al monumento a cavallo del Re d’Italia, ora alle Cascine, la cultura italiana giocava a scacchi e a dama, discuteva di poesia cavalcando il primo ermetismo, allevava autori di libri che avrebbero formato la civiltà del Novecento italiano, in una Firenze di case editrici, che poi nel Secondo Novecento sparirono, perlopiù per stabilirsi a Milano fagocitate dalla cultura dell’incasso, non da quella dell’offerta di nuove firme vere e nuovi che non siano gialli o thriller camuffati di letteratura. C’era chi scriveva e rifletteva davanti a un tazzina di caffè ormai vuota, e appuntava di un quadernetto una celebre filastrocca che più o meno diceva: Giubbe Rosse è quella cosa che ci vanno i futuristi- se discuton non c’è Cristi- non si può giocare a dam… Sì zoppicano i versi, ma rendono l’idea, e si contrappongono a quelli che uno sconsolato poeta inventava fissando il cavallo di Re Vittorio e le vetrine di Paskowski, dall’altro lato della piazza: Piazza Vittorio-piazza rottorio, qualcuno l’attribuisce a Papini. Forse. Lui però non era poi troppo quieo durante gli scontri con Marinetti e company.
Le ‘Giubbe Rosse’ sono Papini e soffici, ma anche Palazzeschi e Bilenchi, Rosai, Carrà, e De Chirico. Qui Lenin, esule si fermava a giocare a scacchi e a discutere di politica, e più tardi Bo e Bargellini, Prezzolini e Luzi, e diversi premi Nobel, quelli stanziali e quelli di passo, discutevano d’arte, filosofia religione e versi, stringatezza del periodo e logica della punteggiatura. Qui nacque fra tante altre cose, quell’interventismo culturale che fu forse l’ultima rivoluzione europea, della quale si sta ancora oggi discutendo.
Ma oggi le ‘Giubbe Rosse’ sono per Firenze che preferisce le botteghe di piazza al taglio e di orrendi panini salame e formaggio accatastati nelle vetrine, una bottega vuota che non rende. Ed è chiusa. E bontà degli ingegni economici locali, coadiuvati dal silenzio disinteressato dei politici, resta tale. Silenziosa, vuota d’idee: insomma un ultimo sciagurato ritratto della città. Certo, ci saranno dietro a questa passività culturale mille lacci e laccioli, che ne impediscono l’acquisto. Forse è davvero così, come accenna anche la signora Bargellini nel suo intervento sul questo sito. E allora sarebbe bene capirlo, questo problema e sapere se davvero, per calcoli oziosi c’è chi priva Firenze di una parte di storia. Vergogna. E se una qualche casa editrice nazionale mettesse qui il suo Coffy-Boock, non libreria, ma centro d’incontri al caffè, per chi voglia spengere per un’ora cellulari e computer ricominciare a pensare con il cervello, e a discutere con il proprio vicino senza una mediazione cibernetica? No eh? Non rende? Se in tanta balordaggine preconfezionata da un consumismo sfrenato, si riaccendesse una luce di speranza?