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di Enrico Cisnetto C’è da rifare il centro-sinistra (quello DC-PSI, non L’Ulivo) ma serve il collante di una forza centrale (stile PRI)

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Due decenni di (rovinosa) Seconda Repubblica non hanno insegnato niente a nessuno. Il dibattito politico è infatti ancora tutto imperniato intorno al tema di “come vincere le elezioni”, dimenticandosi completamente di quello ben più importante di “come governare”, e sulla domanda “chi sarà il leader?”, che evidentemente sul piano mediatico vende di più di quella “come si forma una squadra di governo?”, che dovrebbe partire dalla più corretta valutazione di come in una società complessa gravata da problemi complessi e interconnessi le decisioni non possono essere ricondotte ad una sola personalità, per quanto capace.

Naturalmente, non siamo così ingenui da non sapere che vincere è la premessa per governare, ma allo stesso tempo ci piacerebbe che tanto il ceto politico quanto editorialisti e commentatori fossero altrettanto consapevoli del fatto che non tutte le vittorie sono utili ad esprimere capacità di governo, anzi che ce ne sono alcune che sono premessa dell’esatto contrario. Per questo nelle settimane scorse dopo il primo turno delle amministrative, non appena è rispuntato sulla scena della politica immaginaria, quella dei bla-bla-bla televisivi o delle paginate dei giornali, il vecchio bipolarismo, ci siamo affrettati a dire che il centro-sinistra e il centro-destra così come li abbiamo visti all’opera (ahinoi) dal 1994 in poi, non esistono più e che la loro rinascita è da considerarsi impossibile (oltre che non auspicabile). Ora, dopo il secondo turno del voto comunale, confermiamo e ribadiamo: le alleanze che abbiamo visto all’opera in sede locale sono code del passato e non trovano riscontro alcuno, neppure potenziale, in sede nazionale. Il fatto, poi, che questa volta abbiano avuto più successo a destra che a sinistra, nulla toglie a questa nostra asserzione, ma semmai è la conferma che la crisi strutturale del nostro sistema politico oggi si faccia sentire più a sinistra, per via delle posizioni di rottura – oggi si ama dire “non inclusive” – di Matteo Renzi e perché la responsabilità del governo negli ultimi anni è toccata al Pd. Allo stesso modo per cui nel 2013, dopo la rovinosa caduta di Berlusconi un anno e mezzo prima, fu il centro-destra a pagare il prezzo più alto, conteggiabile sia col numero esponenzialmente crescente delle astensioni sia con il boom dei grillini.

 

In egual misura, non siamo così sciocchi da non sapere che il cittadino tende a volere risposte semplificate e ad identificare le politiche con le persone. E che, di conseguenza, oggi la questione politica tende a ridursi alla questione “ma se non Renzi, chi?”, domanda che postula una crescente sfiducia nel “rottamatore” ma anche la preoccupazione che non ci sia in giro nessuno, nell’area moderata che pende sia a sinistra che a destra, in grado di governare il Paese. Ma il fatto che circolino simili interrogativi, e che sia giusto tenerne conto, non significa necessariamente che si debba rinunciare a spiegare agli italiani che le leadership si misurano sui programmi e sulle squadre che devono realizzarsi, le quali a loro volta devono essere valutate per il mix di competenze e di coesione politica interna che esprimono.

 

Fatte queste premesse, non sfuggiremo a quello che oggi appare il nocciolo del problema politico italiano, l’approssimarsi delle elezioni e le scelte che si potranno e dovranno fare. Partendo dal presupposto che nel Paese continua ad esistere una maggioranza (larga) di moderati, che non si riconoscono né sono riconducibili alle posizioni più radicali ed estreme, vuoi a destra come a sinistra, e che per la gran parte non si sentono rappresentati da alcuna forza politica. Costoro oggi si pongono le seguenti domande: a) vale la pena di andare a votare, o alla fine è normale e lecito esprimere la propria scontentezza restando a casa?; b) il voto ai 5stelle è una valida alternativa all’astensione?; c) pur avendo buoni motivi per essere delusi, ci possiamo permettere un voto di protesta come quello a favore dei grillini, specie dopo averli visti all’opera a Roma e in altre realtà?; d) possiamo immaginare che le sorti del Paese siano affidate ad un signore che ha già passato gli 80 e che quando ne ha avuto occasione non ha dato prove mirabolanti di saper governare, tanto più se la sua eventuale chance dipende dall’alleanza con un estremista come Salvini?; e) viceversa, è opportuno affidarci ad un quarantenne che ha mostrato evidenti limiti, prima di tutto caratteriali ma anche politici, pur avendo una certa (e sana) inclinazione al decisionismo?

 

Proviamo a rispondere nello stesso ordine: a) l’astensione come precisa scelta politica, non qualunquista, è ormai sdoganata, ma il fatto che sia lecita non ne riduce la sterilità, anche perché l’effetto che doveva avere – dimostrare che quasi la metà del Paese è disillusa – l’ha già avuto; b-c) è ormai venuto il momento di non considerare più il voto ai grillini come una forma di ribellione, per il semplice motivo che essi sono a un passo dal governo e per definizione la protesta alberga all’opposizione. Dunque il prossimo o sarà un voto consapevole o non dovrà essere, perché a questo punto la responsabilità è troppo alta per poter dire poi “ma io volevo solo farla pagare cara agli altri”; d) Berlusconi non può essere la risposta ai nostri problemi, né ha saputo creare una classe dirigente all’altezza. Tanto meno lo sarebbe se si chiudesse in un’alleanza con il duo Salvini-Meloni, che sono su posizioni populiste e sovraniste del tutto incompatibili con la posizione europeista filo-merkeliana di Forza Italia e la sua collocazione nel Ppe. Viceversa, il voto a Forza Italia potrebbe rivelarsi prezioso se sarà utilizzato per realizzare una coalizione di centro-sinistra (nella vecchia accezione, quella della Prima Repubblica) che sbarri la strada a Grillo e tenga fuori le due ali dello schieramento politico nazionale; e) il voto al Pd, specularmente a quanto detto per Forza Italia, vale nella misura in cui sia speso per realizzare un’alleanza strutturale, dunque dichiarata prima e frutto di una precisa scelta politica e non conseguenza dei numeri usciti dalle urne, per unire i riformatori con i moderati in un novello centro-sinistra Dc-Psi. È evidente che i comportamenti tenuti fin qui da Renzi (campagna per il referendum, contenuti del referendum stesso, scelte post 4 dicembre, forzature dentro il suo partito) non lo rendono il più idoneo a costruire questo passaggio della vita politica, che se fosse ben realizzato potrebbe rappresentare l’avvio (finalmente) della mai nata Terza Repubblica. E alla domanda “ma chi se non lui?”, specie se posta non dai fans di Matteo (sempre meno) ma dal crescente partito di chi ne farebbe volentieri a meno ma teme di cadere dalla padella nella brace, l’unica risposta sensata è la seguente: chiunque dimostri di aver capito a cosa il Paese va incontro alle prossime elezioni e spenda parole coraggiose e non slogan come “facciamo da soli che tanto superiamo il 40%” o “ricostruiamo il grande Ulivo dei fasti (?) prodiani”. Sapendo che l’unica possibilità che ciò accada sta non nella maturazione politica interna al Pd – di cui non si vede l’ombra – ma nella pressione che può esercitare una nascente forza di centro che faccia da collante come le forze laiche, Pri in primo luogo, fecero al nascere dell’alleanza tra Dc e Psi. Quella forza nuova che la scorsa settimana abbiamo evocato e invocato, nella speranza – finora delusa, ad essere sinceri – che il senso di responsabilità prevalga sulla sempre più diffusa voglia di fuga.

 

Enrico Cisnetto  (Pensalibero.it) 

 

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